Giornata mondiale contro la violenza sulle donne: in piazza anche l'organizzazione "Non Una Di Meno"
Il 25 e il 28 novembre 2020 saranno ancora una volta giornate di lotta contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. Sentiamo forte l’esigenza di tornare in piazza perchè sono prima di tutto le donne a pagare il prezzo dell’emergenza sanitaria in corso.
La pandemia e la sua gestione sono due facce della stessa medaglia proprio perché il corpo delle donne e gli ecosistemi hanno condiviso e condividono uno stesso destino: sono trattati come risorse gratuite ed inesauribili, disponibili all’appropriazione e allo sfruttamento per alimentare un modello sociale e di sviluppo violento e senza rispetto per la nostra vita. Questa violenza sta arrivando oggi a un punto di non ritorno, l’emergenza sanitaria ne è solo un segnale.
I numeri parlano di vite a rischio e di responsabilità collettiva, ma non siamo tutt* sulla stessa barca.
Le conseguenze del lockdown si misurano nei dati della violenza domestica destinati ad aumentare ancora con le nuove misure di confinamento. I centri anti-violenza femministi e le case rifugio hanno dovuto fare fronte a un’emergenza nell’emergenza per non lasciare nessuna da sola. È sempre più urgente fare sentire la nostra voce contro l’aumento vertiginoso di stupri, femminicidi, violenze domestiche e omolesbobitransfobiche che ha segnato i mesi di questa pandemia. la famiglia e la casa sono più che mai luoghi di oppressione e di conflitto, così come tribunali e ospedali sono luoghi di violenza istituzionale. I cimiteri dei feti ne sono l’emblema.
In questi mesi le nostre vite sono state travolte, non ci siamo mai fermate. La pandemia ha messo in luce il nesso oppressivo tra la violenza economica e il lavoro di cura. Lo smartworking ha spostato in casa il lavoro di molte mentre il lockdown aumentava quello di cura e domestico. il lavoro nell’assistenza sanitaria e domiciliare, nei servizi, nell’educazione e nelle case si si è rivelato ancora una volta il più essenziale ma anche il più precarizzato, svalutato ed esposto a rischi di contagio: sono in maggioranza le donne a essere impiegate nei servizi essenziali, quelli che non possono essere svolti «in remoto» e sono andati avanti, obbligando lavoratrici e madri a un’impossibile conciliazione tra lavoro e famiglia, tra salario e salute. Sono le donne, le persone lgbtqia+, migranti, precarizzate e non garantite a pagare la crisi, aumentando dipendenza economica e fragilità sociale. Il razzismo istituzionale ha avuto effetti pesantissimi sulle condizioni di vita e lavoro delle persone migranti, e la vergognosa sanatoria destinata ai lavori essenziali ha confermato il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro che intensifica lo sfruttamento, ancora di più se lavorano nelle case.
Denunciamo le relazioni di potere che si nascondono dietro la gestione della pandemia. Il ricorso sistematico al lavoro gratuito precario o malpagato non è corrisposto a nessuna misura di sostegno al reddito e al salario, di inclusione al welfare, di sostegno alla cura dei bambini e degli anziani nel collasso del sistema socio-santario e scolastico.
La tenuta della sanità e della scuola mostra un sistema sociale distrutto dalle politiche di austerity e fondato sulle diseguaglianze di genere, di provenienza, di classe, anagrafiche e abiliste. Le scuole sono diventate luoghi di tensioni grandissime, a causa di una riapertura giocata sui banchi a rotelle anziché sulla trasformazione delle condizioni di lavoro di insegnanti, madri e lavoratrici, e dell’istruzione di bambin*. Mentre gli ospedali pubblici sono di nuovo al collasso per scarsità di personale e di mezzi, la sanità pubblica ha sospeso e affidato al privato l’ordinaria attività di assistenza per reggere all’onda d’urto dei contagi: la prevenzione e le cure oncologiche, il sostegno psichiatrico, le terapie ormonali per le persone trans, l’accesso all’aborto, già ostacolato dall’obiezione di coscienza, non ritenuti urgenti sono stati ulteriormente limitati dal sovraccarico degli ospedali. Garantire il diritto alla salute per tutt* è impossibile se non si ripristina il sistema sanitario pubblico territoriale, se non si chiude con l’aziendalizzazione e la privatizzazione della sanità pubblica e la precarizzazione del personale socio-sanitario. Così come la vittoria sulla RU486 rischia di rimanere sulla carta se non si dà seguito al rafforzamento della rete consultoriale.
Oggi si parla di dare «ristoro» a chi, nei nuovi lockdown, perderà i propri profitti; Confindustria difende gli interessi padronali come ha fatto a marzo, condannando lavoratrici e lavoratori a sacrificare la salute per un salario. noi vogliamo la ridistribuzione della ricchezza che produciamo. Il governo italiano prepara un Recovery Plan per nascondere lo sfruttamento del lavoro delle donne e il loro impoverimento con la retorica dell’autoimprenditorialità; è in cantiere un Family Act che rafforzerà la famiglia patriarcale che opprime le donne e chi non si conforma ai suoi ruoli. Tutto quello che noi viviamo, tutto quello contro cui lottiamo rischia di essere oscurato dal governo della pandemia e dalla ristrutturazione della società.
Il 25 e il 28 novembre ci mobilitiamo perchè abbiamo un Piano femminista e transfemminista contro la violenza patriarcale e pandemica. Saremo nelle piazze di molte città italiane, saremo on line e off line, con azioni, presidi e flashmob perché la posta in gioco non è soltanto la gestione dell’emergenza, ma la riorganizzazione della società che ci aspetta dopo la pandemia.
Pretendiamo che le risorse del Recovery Fund vadano a finanziare sanità e scuola pubbliche, a garantire un reddito per l’autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare veramente universale e non familistico, per liberare le donne dal carico esclusivo del lavoro di cura. Lottiamo per un permesso di soggiorno europeo slegato dalla famiglia e dal lavoro. Lottiamo per le risorse ai centri anti-violenza femministi e per le case rifugio, aperti alle donne e alle persone lgbtqia+ che intraprendeono percorsi di fuoriuscita dalla violenza, lottiamo per un nuovo piano antiviolenza che metta al centro autonomia e autodeterminazione.
Lottiamo per sostenere tutte quelle pratiche di solidarietà e mutualismo che offrono una via di uscita alla violenza e all’impoverimento. Lottiamo in connessione solidale con il Transgender day of Remembrance del 20 novembre. Lottiamo perché non accettiamo un sistema di produzione industriale e alimentare che abusa dei corpi e dei territori, li sfrutta e distrugge in nome del profitto.
Questo è il Piano che noi vogliamo far vivere nelle piazze del 25 e del 28 novembre, insieme alle donne e alle soggettività dissidenti che in tutto il mondo stanno lottando. Sono queste lotte che hanno dimostrato, nel corso della pandemia, che il nostro lavoro è «essenziale». Questo è il senso vivo dello sciopero femminista e transfemminista transnazionale. Non vogliamo essere solo una statistica sulle “nuove povertà”; non siamo «angeli», non siamo «eroine». Se abbiamo una missione non è quella di accudire una società che ci opprime e ci sfrutta, ma di trasformarla radicalmente.
Il 25 e il 28 novembre, contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, facciamo risuonare un grido altissimo e feroce: Se ci fermiamo noi, si ferma il mondo!